Nell’ottobre del 1905, il novizio, Frà Pio, entrò nel convento di San Marco la Catola in provincia di Foggia, per gli studi liceali e teologici, dove incontrò Padre Benedetto che diventa suo direttore spirituale fino al 1922. A Padre Benedetto, Frà Pio scriveva della sua misteriosa malattia, che accettava in silenzio e con gratitudine perché voluta dal Signore;
a lui confidava le sofferenze che considerava “tempeste“ che l’Altissimo gli mandava come una “speciale permissione” che sarebbero cessate solo con l’intervento del Signore.
Padre Benedetto disapprovava la permanenza di Frà Pio fuori dal convento e, benché si fosse persuaso che la malattia sfuggisse una spiegazione terrena, provò più volte a riportare il frate nelle mura del chiostro. Ma lo stato di salute di Frà Pio peggiorava irrimediabilmente, e Padre Benedetto era costretto rimandare il suo figlio spirituale al paese natio. Nella speranza di una guarigione, Padre Benedetto accettava “…l’alto decreto di Dio” che non permetteva a Frà Pio di dimorare in quel chiostro, dove Egli stesso lo aveva chiamato e benediceva il disegno divino che voleva il frate esule nell’esilio del mondo, perché potesse riporre solo nel Signore le sue speranze”.
Padre Pio nel novembre del 1910 confessò a Padre Benedetto di volersi offrire al Signore come “vittima per i poveri peccatori e per le anime purganti” egli desiderava espiare le colpe, ricevere su di se i castighi che erano “preparati sopra dei peccatori e delle anime purganti”, perché il Signore convertisse e salvasse i peccatori ed ammettesse presto in paradiso le anime del purgatorio.
Il frate torturato dalle sofferenze, spesso aveva desiderato di morire. Padre Benedetto lo riconduceva all’obbedienza, affinché rientrasse a vivere sotto le ali di San Francesco, abbandonasse il desiderio di morte e accettasse le sofferenze, per compiere la missione che il Signore gli aveva affidato, “Soffrire e non morire”.
Padre Pio, nel 1918, ebbe il dono della trasverberazione, che sconvolse il suo animo; Padre Benedetto gli fu vicino e lo aiutò a comprendere quello che stava accadendo, poiché il frate giudicava il fenomeno come una “nuova punizione”. Il 27 agosto, il direttore spirituale gli scriveva una lettera, spiegandogli che quanto accadeva in lui era “effetto di amore”, prova e vocazione a “corredimere”: la ferita al cuore compiva nel frate la passione come l’aveva compiuta Cristo sulla croce, inducendolo a baciare la mano che lo aveva trasverberato e a stringersi dolcemente codesta piaga che era suggello d’amore.