– di fr. Francesco Scaramuzzi –
La mente corre a Don Milani che sulla porta della sua povera ma incredibile scuola fece scrivere: “I Care”. Quella frase raccoglie i principi della sua scelta: “ho a cuore”, mi preoccupo di…
Se oggi c’è un insegnamento che dobbiamo apprendere con urgenza è proprio quello della revisione dei nostri rapporti interpersonali.
Altro che “relazioni”. L’acidità ci inquina. La trincea ci affascina più del crocicchio. Stiamo diventando corazze. Più che luoghi d’incontro siamo spesso piccoli centri di scomunica reciproca. L’altro – diceva don Tonino Bello – lo vediamo come limite del nostro essere, invece che soglia dove cominciamo a esistere veramente.
E qui che la “pedagogia della cura” dà prova della sua concretezza.
Si potrebbe fare della filosofia e della sociologia per mostrare fino a che punto «gli altri» fanno parte del nostro grande lavoro di personalizzazione. Ma cerchiamo prima di tutto le luci della fede.
Dio «comandò a ciascuno di aver cura del proprio prossimo» e questo dovere è tanto più necessario quanto maggiore è il bisogno in cui versa il nostro prossimo. Cura come affanno, preoccupazione, pazienza, pensiero per quel che conta.
Succede di frequente però che si anteponga l’ideale della cura del prossimo all’accadimento della vita quotidiana. Così si preferisce occuparsi dei “lontani”, piuttosto che preoccuparsi dei “prossimi più prossimi”. È certo obiettivamente più difficile avere cura di chi ci sta a fianco, e cioè del marito o della moglie, del figlio o del genitore, del collega di lavoro o del vicino di casa. È oggettivamente più difficile avere cura di quelle persone che incontriamo nelle forme immediate della nostra vita. Eppure è proprio partendo da loro che possiamo realizzare l’ideale dell’amore.
Gesù ci raccomanda di riscoprire questa vicinanza quotidiana esattamente come fece lui, duemila anni fa, quando al termine della sua vita «i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).
Nella storia c’è sempre stato un lungo approfondimento del concetto di “cura”. Cura come attenzione, interesse, come imperativo morale che ha radici bibliche da un lato e classiche dall’altro. Si cita l’Apologia di Socrate e Cicerone, fino a Heidegger. L’analisi concettuale di quest’ultimo è piuttosto interessante perché il filosofo fa una distinzione precisa tra l’aver cura e il prendersi cura. In tedesco “besorge” significa “essere presso le cose”, mentre “fürsorge” vuol dire “aver cura delle cose”.
La differenza fondamentale tra il prendersi cura e l’aver cura degli altri sta nel fatto che la relazione con le persone non può esaurirsi nella semplice presenza, ma si configura come un “essere con”, una cura condivisa, una cura “per l’altro”.
L’aver cura è quindi quel modo di essere che noi abbiamo con gli altri quando effettivamente ci preoccupiamo di loro, rapportandoci con le loro sofferenze, accogliendo le loro esperienze e il sentire profondo della vita del nostro prossimo. Quella cura che in latino possiamo tradurre con il termine devotus, che significa dedito, come se colui che abbiamo davanti fosse sacro. Ed è proprio quando si è capaci di riconoscere il sacro nell’altro e da questo essere sacro ci si lascia interpellare, che si genera la cura. È questa una verità che un giorno espresse Padre Pio con una frase assai felice: «Sappiate che il vostro dolore si ripercuote fortemente in chi a voi è unito in uno stesso spirito davanti a Lui. Ed avere compagnia nel dolore scema la pena». (Ep. IV, 14 febbraio 1915).
La sua singolare sensibilità umana, illuminata dalla fede, gli aveva fatto scoprire e sperimentare la furia delle tempeste di cui erano vittime i suoi figli spirituali. E, d’altra parte, si rendeva conto che era per tutti di gran conforto constatare la sua condivisione ai loro intimi dolori. Era rasserenante la disponibilità, la prontezza e la generosità con cui si offriva ad aiutarli. Certo anche Padre Pio si è scontrato con persone dal carattere ‘impossibile’. Lo stesso Gesù ha gridato, ha ammonito, ha cacciato, ma alla fine ha amato.
Laddove siamo chiamati a essere uno per gli altri sappiamo di doverci impegnare in qualcosa di difficile da raggiungere senza che ci sia una grande forza di volontà.
Dobbiamo saper passare da un egoismo carico di buone ragioni a un amore incondizionato. Questo passaggio, questa Pasqua che vuole la morte dell’egoismo e il trionfo dell’amore, ha bisogno della nostra fede. Solo in Dio ogni persona può vivere veramente per l’altra.